Ad oggi, ormai tutti i sordi imparano a parlare a voce grazie alla riabilitazione verbale?
❌ FALSO
Nonostante i progressi tecnologici e l’espansione della logopedia, non tutti i sordi riescono a sviluppare un linguaggio vocale fluente. L’idea che la riabilitazione verbale porti automaticamente tutti i sordi a parlare bene è un mito, alimentato spesso da chi considera la voce l’unico strumento “valido” di comunicazione.
Perché:
- Ogni persona sorda è diversa
Non tutti i sordi hanno lo stesso grado di perdita uditiva, le stesse condizioni familiari, lo stesso accesso precoce alla diagnosi, alle tecnologie o ai servizi logopedici. Alcuni iniziano un percorso verbale presto, altri tardi o mai. Alcuni riescono a sviluppare un parlato comprensibile, altri no.
- La riabilitazione verbale ha risultati molto variabili
Anche con protesi o impianto cocleare, non è garantito che una persona impari a parlare bene a voce. Dipende da molti fattori: tipo di sordità, età d’intervento, qualità del percorso logopedico, ambiente linguistico, supporti visivi. E anche chi parla bene a voce può non comprendere le conversazioni orali.
- Parlare a voce non significa capire tutto
Molti sordi, anche quelli che parlano fluentemente, non riescono a seguire le conversazioni udenti, specialmente in ambienti rumorosi, in gruppo, o senza contesto visivo.
Ma non vogliamo fare ideologia sostenendo questo. Preferiamo lasciare che siano alcune persone a raccontarvi, con le loro testimonianze, cosa hanno vissuto.
Sono cresciuto in un istituto per sordi. Ricordo ancora con chiarezza un meccanismo abituale di inganno, messo in atto dal responsabile delle classi specializzate.
All’epoca, l’istituto accoglieva circa 120 studenti sordi, suddivisi in classi da 8, come previsto dalla normativa vigente.
C’erano all’incirca 15 classi in totale. Solo una quindicina di alunni erano in grado di parlare bene a voce.
Per questo, in ogni classe veniva inserito almeno un alunno ‘modello’, scelto strategicamente per fungere da esempio positivo per gli altri.
Ma durante le frequenti visite di delegazioni universitarie, il responsabile manipolava deliberatamente la composizione delle classi per creare una narrazione compiacente sull’efficacia del metodo oralista.
In un caso specifico, sette studenti sordi non fluenti vennero allontanati temporaneamente da una classe, sostituiti con sette alunni di altre sezioni che sapevano parlare a voce. Lo scopo era chiaro: far credere ai visitatori che tutti e otto gli studenti presenti sapessero parlare bene a voce, portandoli a concludere che l’intero istituto stesse ottenendo risultati brillanti grazie all’oralismo.
Da sordo che ha vissuto tutto questo sulla propria pelle, oggi ne sono certo: se quel responsabile riusciva a ingannare così facilmente, anche oggi altri continuano a farlo.
Del resto, ho conosciuto molti sordi con impianto cocleare che, nonostante tutto, parlano ancora molto male, non solo a voce ma anche per iscritto, con gravi difficoltà nella lingua italiana.
2° testimonianza di Francesco*:
Ricordo con lucidità ciò che accadeva alla fine di ogni estate, quando — come da tradizione — venivano organizzati spettacoli teatrali all’interno dell’istituto, di fronte a un pubblico composto da autorità, amici, genitori e parenti.
I protagonisti principali venivano selezionati tra gli studenti sordi che parlavano bene a voce, incaricati di leggere ad alta voce messaggi e annunci scritti da docenti udenti.
Proprio io ero tra questi studenti.
Gli altri, quelli che non parlavano fluentemente a voce, venivano relegati a ruoli secondari: figuranti, mimi o interpreti di scene esclusivamente visive, spesso prive di parole e centrate più sull’aspetto estetico che espressivo.
L’obiettivo era duplice:
- costruire un apparente equilibrio, per soddisfare le aspettative del pubblico — in particolare dei genitori e parenti
- e far credere che tutti gli studenti fossero coinvolti, anche se in ruoli ben distinti, secondo le loro “capacità verbali”.
Alla fine, tutto il pubblico finiva per credere davvero che l’istituto avesse fatto un ottimo lavoro: era riuscito a far parlare a voce tutti gli studenti sordi. È vero, io parlavo bene.
E per anni ho portato con orgoglio il fatto di essere uno dei quindici sordi dell’istituto capaci di parlare a voce. Ma poi, nei momenti più importanti — durante le conversazioni, le interviste, i dibattiti — tutto avveniva in italiano parlato, e per me diventava inaccessibile.
Mi sono accorto che non bastava far vedere che parlavo bene.
Una volta sono andato a uno spettacolo teatrale completamente in LIS: è stata la prima volta che mi sono sentito davvero incluso.
Tutto era accessibile agli occhi: annunci, risposte, conversazioni, persino le battute. In quel momento ho capito: sì, i sordi possono anche parlare bene — e va bene così — ma poi cosa accade se tutto continua ad avvenire a voce?
Gli udenti parlano tra loro, i sordi restano fuori. In LIS, invece, questo non succede.
Oggi io uso sia la LIS che la voce. E solo adesso posso dire di sentirmi davvero completo. Davvero accessibile.
Comunque, detto questo, ogni volta che vedo sordi ‘rappresentati’ mentre parlano davanti al pubblico, sono ormai convinto che siano stati selezionati tra quelli che parlano meglio a voce.
E se davvero la mia testimonianza fosse vecchia o superata, allora perché non ci mostrano un campione casuale di sordi che parlano bene a voce, per verificare se davvero tutti i sordi comunicano fluentemente in italiano parlato, come spesso viene fatto credere?
Sarebbe interessante vedere quanti, davvero, riescono a comunicare efficacemente in contesti reali e spontanei.
Sono cresciuta parlando esclusivamente a voce. La LIS era un tabù assoluto: guai anche solo nominarla.
La mia famiglia era ossessionata dall’idea che dovessi “essere come gli udenti”, a tutti i costi. Era fuori discussione persino l’idea di innamorarmi di un altro sordo, anche se oralista, per evitare il rischio che potessimo generare, possibilmente, dei figli sordi.
Infatti, il mio ragazzo di allora era udente e comunicavamo esclusivamente in lingua parlata. Non avevo difficoltà a farmi capire.
Ricordo bene: avrò partecipato ad almeno dieci vacanze organizzate in un campeggio estivo con le mie amiche, tutte udenti. Io ero sempre l’unica sorda. Come detto, non avevo difficoltà a farmi capire, però durante tutto il tempo non riuscivo mai a seguire davvero le conversazioni, i discorsi lunghi, i commenti improvvisi, le battute dette velocemente. Fingevo di ridere e di divertirmi.
Una volta, per caso, su una spiaggia fuori dal campeggio, ho visto un gruppo di ragazzi sordi che chiacchieravano tra loro in LIS.
Ridevano, parlavano a lungo. Non mi sono avvicinata. Non ho detto che anch’io ero sorda. Mi sembravano diversi. Ero cresciuta credendo che non avessi nulla da condividere con chi usava la LIS.
Le mie amiche, vedendoli da lontano, hanno riso e detto: “Guarda come gesticolano, sembrano scimmie. Tu invece sì che parli bene, si vede che sei una vera persona”.
Forse sì, parlavo bene. Ma non potevo fare a meno di notare che loro ridevano davvero, si capivano, si ascoltavano con gli occhi. Io, invece, parlavo bene… ma non riuscivo a seguire nulla. Non capivo i discorsi lunghi, i commenti improvvisi, le battute rapide in italiano parlato. Mi sentivo tagliata fuori.
A quel punto, ho trovato il coraggio di rompere il tabù e mi sono avvicinata a loro, nonostante i consigli contrari delle mie amiche.
Non conoscevo la LIS, ma mi facevo capire in qualche modo. Devo dire con onestà: dopo tre giorni trascorsi insieme, ho capito una cosa fondamentale. La LIS non era affatto come me l’avevano descritta. Anche se in così poco tempo non ho imparato molti segni, mi sono sentita accolta, libera, vista. E perfino le mie amiche, che all’inizio ridevano, hanno cominciato a cambiare sguardo.
Mi ricordo ancora una scena: una di loro si era messa con un ragazzo sordo, una semplice avventura estiva. Scherzando, le dissi: “Ma ti sei messa con una scimmia?” Lei rise, ma poi ci pensò su e mi disse, seria: “Mi sto rendendo conto di quanto fosse assurdo e discriminatorio il mio pregiudizio. Perché mai ho dato per scontato che chi comunica con la LIS sia ‘inferiore’, ‘strano’, ‘non umano’, mentre chi parla con la voce sia automaticamente ‘normale’ o ‘valido’?”
Quando sono tornata a casa, mia madre ha notato una felicità diversa dalle altre. Si sa, solo le madri capiscono tutto subito. Ho avuto il coraggio di raccontarle ogni cosa, di aprirmi, di esprimere finalmente i miei sentimenti. Lei è scoppiata in lacrime.
Non dimenticherò mai le sue parole: “Se ti senti libera, e se vuoi imparare la LIS, va benissimo. Ti supporto.” Ci siamo abbracciate a lungo.
Poi le ho chiesto: “Posso farti una domanda?”
Alla sua risposta affermativa, ho detto: “Perché, per tutta la mia vita, mi hai escluso dalla possibilità di conoscere anche la LIS fin da quando ero bambina?”
Mia madre è scoppiata a piangere ancora più forte. “Quando eri piccolissima, i dottori mi dicevano di non farti usare la LIS. Dicevano che la LIS era ormai superata, una cosa che – testuali parole – ancora usavano le scimmie. Io ci ho creduto. L’ho fatto solo perché non volevo che mia figlia fosse vista come una di loro. Perdonami. Non avrei mai dovuto crederci”.
Adesso io uso la LIS. E parlo anche a voce. Solo così ho ritrovato il mio equilibrio. Solo così mi sento, finalmente, me stessa.
Anche se, col cuore in mano, avrei tanto voluto imparare la LIS fin da bambina – purtroppo, una lingua negata per mano dei dottori.
Sono udente. Ero un sostenitore convinto dell’oralismo.
Facevo parte di un’associazione fortemente orientata verso questo approccio, guidata da una donna autorevole, una madre molto carismatica con una figlia sorda.
Era considerato un privilegio far parte del suo cerchio. Provavo un grande orgoglio ogni volta che vedevo persone sorde parlare perfettamente a voce, senza ricorrere alla LIS.
Con mia sorpresa, proprio sua figlia mi ha chiesto di uscire, nonostante la tradizione in cui sono gli uomini a dover fare il primo passo. Da lì è nato l’amore. Ci siamo sposati. Ero felice, davvero felice.
Ma è stato proprio nel matrimonio che ho iniziato a vedere ciò che l’associazione non mostrava: la verità silenziosa.
Da vicino ho conosciuto la sua fragilità. Ho visto che mia moglie, nonostante il suo impegno e i sorrisi pubblici, dentro di sé era spesso triste.
Durante i momenti di solitudine, sembrava spenta. Le chiedevo di sorridere davvero, e lei lo faceva… ma con fatica. Era un sorriso finto.
Allora ho riflettuto a lungo. Ho organizzato una cena a casa nostra, invitando un gruppo di sordi segnanti.
Era un piccolo esperimento, volevo osservare la sua reazione. All’inizio era imbarazzata, tesa.
Ma poi, col passare delle ore, ho visto qualcosa sciogliersi dentro di lei. Ha iniziato a ridere, a divertirsi davvero. Le sono scese lacrime di sollievo. E io ho visto, per la prima volta, il suo vero sorriso.
Da quel momento, abbiamo deciso di imparare la LIS. Oggi, sia io che i nostri figli — tutti udenti — usiamo sia l’Italiano che la LIS. E mia moglie è finalmente felice.
Questa esperienza mi ha insegnato una cosa fondamentale: non bisogna fingere di parlare bene solo per compiacere una società dominata dall’oralismo.
La società non è fatta di ideologie, ma di persone diverse che la compongono.
Ricordo ancora il giorno in cui, nella sala d’attesa di un ospedale, ho conosciuto una madre con un figlio sordo, proprio come la mia bambina sorda. Entrambe aspettavamo che i nostri figli uscissero dalla seduta di logopedia.
Da quel momento siamo diventate care amiche, unite dal desiderio di sostenerci a vicenda per garantire ai nostri figli il meglio — nel nostro caso, farli parlare bene a voce e integrarli nella società pari a tutte le persone udenti.
Devo essere onesta: mia figlia parlava molto meglio rispetto al suo bambino. Lui era spesso nervoso, piangeva ogni volta che i genitori cercavano di comunicare solo con la voce, senza successo. È andata avanti così per diversi anni.
Alla fine, hanno deciso di contattare una loro cara amica sorda che usava la LIS, nonostante i miei consigli contrari.
Ricordo ancora il racconto di quella visita. Quando la segnante è arrivata a casa, il bambino stava piangendo e i genitori non riuscivano a capire cosa volesse.
Lei si è abbassata al suo livello, lo ha guardato negli occhi e gli ha chiesto con segni semplici: “Perché piangi? Vuoi il latte?”
Lui ha smesso di piangere. Ha risposto di sì.
In quell’istante i genitori hanno capito. E hanno deciso di imparare la LIS, per comunicare davvero con lui.
Io, invece, ero contraria. Ho deciso di proseguire con la lingua parlata per mia figlia.
Ma poi ho notato che lei era sempre attratta da quella famiglia. Mi chiedeva spesso di poter passare del tempo con loro, non solo per giocare con l’amichetto, ma anche per la comunicazione usata in LIS in famiglia.
Voleva comunicare anche lei in LIS.
Alla fine, ho capito che non era importante il mio desiderio, ma la sua libertà comunicativa.
Non dovevo forzarla a parlare solo a voce, contro il suo istinto naturale: dovevo solo permetterle di esprimersi.
Anch’io ho imparato la LIS. E oggi posso dirlo con il cuore: sono davvero felice.
Ogni volta che ripenso a un attimo in particolare… mi scendono le lacrime.
Conclusione:
Avete letto con i vostri occhi queste testimonianze. E non sono le uniche. Non dimentichiamo le interviste pubbliche ai 12 sordi cresciuti in ambienti esclusivamente oralisti, che hanno raccontato — con coraggio — le proprie esperienze vissute in nome di un modello che li voleva “normalizzati”
C’è anche un film, Il tuo nome è Jonah (titolo originale: And Your Name Is Jonah, 1979), un toccante dramma. Nonostante sia stato girato 45 anni fa e rappresenti una realtà profondamente diversa, priva delle tecnologie di oggi, il suo messaggio resta attuale: i pregiudizi e l’ignoranza di molti operatori e medici nei confronti delle persone sorde persistono ancora oggi.
Il film è disponibile su Amazon Prime Video, in lingua inglese con sottotitoli in inglese.
Attraverso testimonianze, interviste e il film selezionato, intendiamo dimostrare che in 145 anni di oralismo imposto dall’alto — dal II Congresso Internazionale degli Educatori dei Sordi (CIES), tenutosi a Milano nel 1880, fino ai giorni nostri — le esperienze reali hanno parlato chiaro: l’oralismo puro, deciso esclusivamente da udenti, non ha portato benefici alla maggioranza delle persone sorde. Al contrario, ha spesso cancellato identità, silenziato bisogni, negato diritti fondamentali. Emblematica, in tal senso, è la svolta del XXI CIES, svoltosi in Canada nel 2010, ben 130 anni dopo: durante quell’edizione, furono pubblicamente chieste scuse per le risoluzioni approvate a Milano, che bandirono la LIS dai programmi educativi a livello globale, con gravi conseguenze linguistiche, emotive e culturali sui bambini sordi. La storia ce lo ha insegnato: non si costruisce inclusione negando una lingua.”
La vera sfida non è “farli parlare a voce”, ma garantire a ognuno il diritto di comunicare nella lingua più accessibile e naturale per sé, senza imposizioni né modelli uniformanti.
Questo articolo non intende affermare che tutte le persone sorde debbano utilizzare esclusivamente la LIS. Imparare più lingue è sempre un arricchimento, specialmente in un mondo sempre più multilingue. Ma deve trattarsi di una scelta davvero libera: senza obblighi, senza manipolazioni, senza modelli che mirano a udentizzare e a far rivivere, ancora una volta, le esperienze dolorose raccontate nelle testimonianze sopra riportate.
Le testimonianze mettono in luce una realtà che molte persone sorde hanno vissuto e continuano a vivere. Per decenni, l’approccio oralista ha dominato l’educazione dei bambini sordi in Italia e in tutto il mondo, spesso escludendo anche invisibilmente l’uso della LIS e privilegiando esclusivamente la comunicazione verbale. Questo approccio ha portato molti genitori, su consiglio di medici e specialisti, a evitare l’insegnamento della LIS ai propri figli, nella convinzione che ciò potesse ostacolare lo sviluppo del linguaggio parlato.
Tuttavia, numerosi studi universitari hanno dimostrato che l’esposizione precoce alla LIS non solo non ostacola, ma anzi favorisce lo sviluppo cognitivo e linguistico dei bambini sordi. L’apprendimento della LIS permette ai bambini di acquisire una lingua naturale e completa, facilitando la comunicazione e l’inclusione sociale. Negare questa opportunità può portare a una deprivazione linguistica, con conseguenze negative sullo sviluppo emotivo e relazionale.
Fortunatamente, negli ultimi anni, c’è stata una crescente consapevolezza dell’importanza della LIS. Nel 2021, l’Italia ha ufficialmente riconosciuto la LIS come lingua a tutti gli effetti, sancendo il diritto delle persone sorde a utilizzarla e a ricevere servizi adeguati. Questo rappresenta un passo significativo verso l’inclusione e il rispetto dei diritti delle persone sorde.
Le esperienze personali evidenziano l’importanza di ascoltare le esigenze individuali e di garantire a ogni persona sorda la libertà di scegliere il proprio percorso comunicativo. L’uso combinato della LIS e della lingua parlata può offrire una comunicazione più completa e soddisfacente, permettendo a ciascuno di esprimersi pienamente e di sentirsi parte integrante della società.
È fondamentale continuare a promuovere una cultura dell’inclusione, in cui la diversità linguistica sia riconosciuta e valorizzata, e in cui ogni bambino sordo abbia accesso a tutte le risorse necessarie per sviluppare il proprio potenziale.
La vera libertà non è fingere di essere “come gli altri”. È essere se stessi, senza dover rinunciare alla propria voce — che a volte è fatta di mani, occhi, corpo, silenzi pieni. Questa è la vera inclusione.
Nonostante tutto, purtroppo il mondo udente continua ad accecare la mente di tanti genitori smarriti, spingendoli a credere che l’oralismo sia l’unica soluzione possibile — la migliore, la più giusta, la più “normale” — con le loro belle parole magiche: “Domani viene sempre il meglio rispetto a ieri”, occultando non solo le testimonianze già citate, ma anche le innumerevoli storie ancora da raccogliere e ascoltare.
Vlog33 non starà zitto. Continuerà a diffondere la verità sull’oralismo e a dare voce a chi per troppo tempo è stato messo a tacere.
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